Degustazione: Fiano di Avellino Pietramara Etichetta bianca 2010, I Favati

Il Fiano fu introdotto in Italia dai Greci e viene menzionato per la prima volta in un registro degli acquisti dell’Imperatore Federico II di Svevia datato 1240; il nome deriva dall’antico nome di Lapio, Appia, vicino Avellino, luogo di origine dell’uva nel nostro Paese. I greci stessi lo chiamavano “Vitis apiana” per via della capacità dei grappoli di attirare, con l’odore e la dolcezza, le api.
Il Fiano era molto diffuso prima dell’arrivo della fillossera ma in seguito alla contaminazione la coltivazione si ridusse drasticamente, fino a quando negli anni settanta, Mastroberardino ne riprese le sorti e ne determinò una nuova importante diffusione, fino a farlo diventare, oggi, uno dei tre nobili di Campania.
Ricco e molto profumato, il Fiano dà vini di corpo, e dall’aroma intenso. Il Fiano concorre, con un minimo del 85%, alla DOCG Fiano di Avellino, istituita nel 1983.blogger-image-1661101855
L’Azienda vitivinicola I Favati, gestita da Piersabino e Giancarlo Favati e da Rosanna Petrozziello, sorta nei primi anni del Novecento, ricopre un ruolo di prestigio sullo scenario enologico regionale e nazionale. Ci riescono perché… sanno fare il vino. Lo sanno fare bene, molto. Dieci ettari per sessantamila bottiglie all’anno, in un contesto produttivo fortemente indirizzato alla ricerca della qualità.
Il Pietramara Etichetta bianca 2010 è una creatura di Vincenzo Mercurio, enologo già allievo di uno dei cardini dell’enologia nazionale – direi anche mondiale – Luigi Moio.
Vediamo il calice di cosa ci parla. Giallo oro antico intenso e consistente, il primo sguardo mi regala la certezza di un vino di corpo. Già al naso ha un ottimo accenno erbaceo, minerale e molto gessoso. Aromi di fiori gialli, cenere, lavagna, nuances di miele di acacia e poi gelsomino, sbuffi agrumati.
In bocca conferma tutta la sua mineralità, si espande senza cedimenti. La freschezza non esasperata seppur ben avvertibile si insinua fra i toni morbidi del sorso. Il campione, quando nel mio calice si riscalda di uno o due gradi, rivela un rapporto con l’alcol molto intenso e olfattivamente ritorni di mela golden. All’inizio sibillino nei profumi, gradatamente si scopre, come una donna innamorata del palato. Il finale è interlocutorio, meno lungo di quanto mi aspettassi: non ne risente la mia valutazione, corroborata da una una bevibilità intatta e una armonia ammirevole.
Giudizio: 88/100